Marina Wiesendanger's
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  15/03/2006; 5.01.36


domenica 26 febbraio 2006


 

L’Accademia degli Avvaloranti

 

Io non so chi siano, e non ho trovato uno che me lo sapesse dire.

Stupidamente non ho chiesto, ed ero lì, ma ero così presa dal posto

che mi sono dimenticata di domandare.

 

E’ un teatro, oggi, esagerato nella sua piccolezza, l’Accademia, a  Città della Pieve,

questa piccola città che paese non è affatto, arroccata su un colle con le poche strade in salita

e vicoli  strettissimi, improvvisi tagliati a curva nella collina,

ad avvistare e creare vento, certi spifferi che ti tagliano in due, così potrebbe chiamarsi una bronchite acuta,

ho preso la Pieve. Eeh. Curati bene.

 

Perché in curva i vicoli? Per evitare le frecce perugine. Nell’assedio, ti tirano e si spuntano le armi

sui muri. Furbi.

E’ un borgo che parla toscano, anche se sta in Umbria, si sente una piccola Siena.

E lo è, ne ha le palle, l’ironia e i mattoni rossi e la borghesia intellettuale.

Difatti stasera apre la stagione teatrale di primavera con attori e commedie direttamente dall’Eliseo di Roma,

perché c’è un sindaco audace, che al suo fianco si è procurato una assessora alla cultura.

 

Titolo, L’amant anglais, di Marguerite Duras.

Prima attrice, Giuliana Lojodice.

 

Conosco il pezzo, mi diverte la Duras che invece di stravolgerti con parole interne, piane,

quelle che usa per il lettore, a teatro si urla e mima la vita attraverso il paradosso.

Per meglio considerare la condizione umana, sotto una lente di ingrandimento

che la rende più tragica. Violenta com’è, la vita, se le togli l’amore ti rimane la pazzia..

 

Qual è la storia.

 

La solita  storia. Ma per la scena la cosa esplode nelle sue implicazioni.

Una coppia ventanni dopo, due che non si ricordano più il loro perché di stare insieme.

Come ce ne sono tanti. 

Ma può essere peggio di così, un ruolo prende più parte dell’altro, che si ribella a suo modo,

qual è la vittima quale il carnefice.

E poiché ogni passione è spenta, tranne quella del rancore e della solitudine bruciante, ci si fa male,

ognuno a suo modo, poco o tanto.

 

Di solito queste solite storie si consumano nel silenzio e nell’ignoranza, non se ne sa niente,

di solito quelli che la vivono perdono di vista i loro perché.

 

Ma qui la coppia  ha un partner, un Interrogatore.

Uno che fa domande: a lui solo, il marito, nel primo atto, due sedie e un colloquio,

sembra un posto di polizia ma l’Uomo delle Domande è più, e meno, di questo.

Chiede cose mirate, a volte umane, suggerisce, scava,  sollecita.

Fa quello che un uomo che ha perso la propria vita come acqua di un rubinetto chiuso male

non sa farsi da solo: chiedersi i perché, farsi prendere dai dubbi,

mettere in fila le ragioni del cuore, sperare nelle emozioni della testa.

 

Lei sarà interrogata dopo, nel secondo atto, e la si sente che non vedeva l’ora di parlare,

anche se sembra brusca e restia.

 

Questa è la storia:

lui si è preso di lei trentenne, debole e sfinita da un amore giovanile che credeva grande, delusa.

La sposa e la punisce col silenzio, zitto e assente lasciandola in una casa vuota.

 

Lui è un funzionario grigio e indurito. Un uomo che sembra retto ma che è colpevole.

 

Lei non lo vede, pensa all’altro

che si fa vivo nei silenzi del marito.

E  si abbandona in giardino, lascia il quotidiano non lava più un piatto non si cura di nulla

se non di stare su una panchina di cemento, di avere pensieri lancinanti, di quelli che “bucano il cielo”

silenziosi, senza speranza di risposta.

Unico contatto esterno i giornali femminili a cui scrive, ripetendo sempre la stessa domanda,

come si conserva la menta inglese?

 

Lui, le rimprovera la sua ignoranza, scrive un francese storpiato, scrive “ l a mant anglais”! 

 

Lei sorride e tace, l’amant anglais è il suo tradimento e non viene mai scoperto.

 

Lui le mette in casa una parente per la cura della casa, e per sorvegliare lei.

La donna è sordomuta.

 

Lui si rivela il carnefice che è, non solo le ha tolto tutto,

ma definisce la vita di lei mettendole davanti il nulla della presenza di questa donna.

Ha esagerato.

 

E lei, una notte, la fa a pezzi. Che sparge su treni che vanno in destinazioni diverse,

unico punto di riferimento, tutti quei  treni hanno in comune quella sola fermata .

E’ qui che cercano l’assassino, in questo morto silenzioso e provinciale paese.

E di chi è il corpo? Non si sa, non ha la testa.

 

E come trovano l’assassina? E’ lei che lo dice, al bar del paese, dove stanno facendo

stupide illazioni su un cadavere sconosciuto. “ L’hanno uccisa nel bosco..” 

“ L’ho uccisa in cantina, dice lei forte, alle due di mattina di lunedì.“ 

Per una volta che parla con gli altri!

E ottiene attenzione.

 

Dov’è la testa? Le chiede l’interrogante.

Le ho fatto un vero funerale, dirà lei, perché se è vero com’è vero Dio che Dio non esiste,

cosa  rimane allora a noi se non onorare la testa?

La nostra testa, quella che sbaglia anche la vita, che crea sogni e fantasmi, che si stanca,

si stanca e impazzisce.

 

Mentre parla e parla, finalmente parla, ma neppure qui la si sentirà,  si alza forte l

a canzone di Edith Piaf,

c’est fou ce que je peux l’aimer, come sempre meravigliosa e potente.

 

Fine.

 

I pievaioli, ci sono tutti, il teatro semitondo con 33 piccoli palchi ridipinti e perfetti, bomboniere,

è pieno, sono soddisfatti e hanno ragione. Uno di Chiusi, di fianco a me, sbadiglia e dice al suo amico,

non so non ci ho capito, la storia non mi prende. E’ uno e posso guardarlo davvero male.

 

Quando ho prenotato, un mese fa al telefono, ho chiesto platea, due e davanti e centrali.

Mi ha detto in puro toscano la signorina, mi dispiace, ultima fila. Ommadonna, faccio io, pesantemente milanese.

Non si dispiaccia signora, la nostra ultima fila è la sesta, posti 5 e 6.  

 

 


6:58:29 PM    comment []

© Copyright 2006 Marina Wiesendanger.
 


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