In un film c’era una ragazza che stava per partorire, a minuti.
Era giovane e terrorizzata, non riusciva ad accettare l’idea di potere essere madre, camminava su e giu’
e nessuno di quelli intorno a lei era in grado di calmarla, di farla sdraiare.
Era come vedere un cervello impazzito, fisicamente messo a nudo.
Un giapponese che parla solo quello le si avvicina e le dice molte cose incomprensibili,
con dolcezza sorridendole e lei ecco si sblocca e piangendo gli racconta che non è pronta, non è degna,
uno sfogo di parole a lui che non le capirà.
E poi e poi per incanto il pianto si fa lamento e la ragazza, liberata, si sdraia e prepara il suo corpo ad essere strumento di nascita.
Cosi’, sulla impossibilità di comunicazione, succede il miracolo del recupero di sé.
Questo mi è venuto in mente nel Duomo di Cortona, guardando gli otto confessionali doppi stretti
come celle di un alveare, scuri severi belli come grandi oggetti di un’epoca lontana che sdegna
insicure mediazioni di medici e lettini, mobili da cinque stelline in negozio antiquario,
in cui un uomo vestito di un rito siede dietro a una tendina guardando fisso davanti a sè
e due penitenti ai lati
raccontano a se stessi i loro peccati, che li fanno sentire così male da ritrovarsi lì,
in ginocchio, davanti a una grata bucherellata da piccoli fori, che danno sul niente,
sul profilo di qualcuno che accoglie il loro brusio, a destra, a sinistra, senza la capacità di intenderli.
La risposta sarà due avemaria due pater e due gloria, se il penitente singhiozza forte la dose verrà raddoppiata
come cucchiaiate di sciroppo per tosse, o pillole da mandar giu’ non chiedendosi neppure di che erbe
sono fatte.
Una comunicazione impossibile, la medicina migliore, quella di cui dobbiamo renderci conto nella vita.
Una solitudine fondamentale per potere crescere e andare avanti.
Capisco ora il senso di quel pensiero, un Tao, che avevo letto distrattamente.
“Nel dono della venuta al mondo, l'esperienza del reale non risulta condivisibile in toto con chi ci è accanto. Come può il sordo rivelare e condividere la sordità? E' per noi quel grido improvviso di corvo, quel sogno che ricorre da quando siamo bambini, la canzone che canta la radio proprio in quel momento. Nulla sarebbe stato se non fossimo stati lì, a ricevere la realtà. Il percorso è individuale, al pari della nostra ascesa.”
Ecco perché mi piace stare nella stanza della cucina. Non devo ricordarmi niente di questo, è già in me.
Se qualcuno passa per uscire e mi chiede cosa mi serve dalla spesa, può fermarsi con me a bere un caffè,
succede che si offra di sbucciare un po’ di frutta per la torta. Si diranno due parole anche non in fila,
possono uscire domande che dentro ci stanno strette,
risposte come “mah” o addirittura “sì”.
E posso vivere con tranquillità, un angelo puo’ perfino passare.
Di fianco al Duomo, il Museo. Dentro, l’Annunciazione del Beato Angelico. La grande stanza è allo scuro, ma scintilla di oro. Non lo sapevo. Quel quadro così conosciuto, visto sempre riprodotto,
è un altro e diverso, è una luce che non sta nelle fotografie. Le ali slanciate come lunghe spade sono colme di oro,
così denso e spesso che esce dalla tela, e così l’aureola e i fili nei capelli. L’angelo è una ventata di gioia
rossa e rosa e bionda, smuove l’aria verso quella piccola donna spaventata ma decisa a restare al suo posto non importa quel che succederà. E’ la lieta novella, ha un senso qui questa frase.
Lui le parla, parole scritte sul quadro gettate verso di lei, lei risponde, parole che da lei viaggiano a lui,
scritte contromano.
Un fumetto di arte. La scena si appoggia su una storia raccontata
in fitti quadretti, troppo buio per vedere, quello che illumina tutto è la luce delle tante aureole dei santi
e degli angeli lì sotto, piccole mezzelune turche gonfie di quell’oro in rilievo.
Se la religione a cui sono stata iscritta offre tutto questo, la cupa confessione e insieme la beatitudine dei sensi, accetto tutto, pago il prezzo che vale.
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